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Canicattì. Tavolata di San Giuseppe: La storia a cura del prof. Giuseppe Lauricella 

Di Giuseppe Lauricella. 

La Tavolata di San Giuseppe: L’ultimo tratto della salita stava diventando impossibile da affrontare, perciò la “gnura” Maria poggiò il sacco a terra e, facendo un sospiro profondo, si accostò al muretto lì accanto. 

“Patriarca San Giuseppe, per voi con tutto il cuore” mormorò.

Erano dieci giorni che girava tutto il paese facendo la questua per preparare la “tavulata” per il Santo. Chi dava qualche moneta, chi un po’ di farina, chi un uovo o una misura d’olio. Non accadeva mai che qualcuno dimenticasse di dare un fiasco di vino. Per preparare la “tavulata” erano necessarie le erbe e quelle doveva raccoglierle da sola nelle campagne vicino il paese. Questa era stata la “promessa” e doveva essere mantenuta.

“Se mio figlio torna vivo dalla guerra, ogni anno fin quando avrò lena per camminare, Patriarca San Giuseppe vi preparerò una tavulata cugliuta”.

Il figlio era tornato vivo anche se lassù in montagna aveva lasciato  una gamba, ma era vivo. Così, anno dopo anno, raccogliendo le offerte in denaro e natura aveva mantenuto la promessa.

Girando poi per i campi raccoglieva: finucchieddri rizzi, cicoria, zarchiteddri, burranii e qualche germoglio di sparacogna. Tutto finalizzato a preparare la minestra. Una minestra “maritata”. Nella pentola la “gnura” Maria, metteva le verdure sminuzzate, alcuni pomodori recuperati dalle conocchie che pendevano dalle travi della soffitta e delle patate. Non potevano mancare fave secche, ceci e piselli. Tutto bolliva e ribolliva sin quando diventato come una crema, cominciava a cuocere la pasta che aveva ricevuta in offerta: ditali, pasta lunga spezzettata e maglittuna schiacciati. L’odore invadeva il cortile e tutto il vicinato apriva le finestre per godere di quegli effluvi. La “gnura” Maria preparava tante frittate con delle verdure appena scottate, ma quella che le riusciva meglio era quella fatta con i “puddricini” (germogli di asfodelo) al palato dolce e delicata come una carezza. Buone erano poi le “guastiddruzzi” fritte cosparse di miele. Cuoceva il pane “ricamato” in forme bizarre e decorato con semi di papaverina, lucido per l’albune spalmato sopra.  La donna era contenta preparando la tavolata, le pareva quasi di vedere San Giuseppe sorriderle. Alla fine immancabili c’erano i dolci: un piatto pieno di biancomangiare farcito di biscotti secchi, le sfinci, alcune vuote cosparse di zucchero e miele e altre ripiene di crema e i cavatuna annegati nel vino cotto. 

In un muro del cortile si sistemava un lenzuolo ricamato (l’ultimo rimasto del corredo dopo avere cresciuto sette figli) sul quale si appuntava una stampa di San Giuseppe sorridente con il Bambinello che gli carezzava la barba bianca. Su un tavolato si sistemavano le pietanze secondo la gradazione del colore. Al centro sempre la pentola fumante della minestra. Sparsi qua e là tanti mazzetti di violacciocca per ricordare il bastone fiorito del Santo Patriarca.   

Ogni anno erano le stesse pietanze, ma la fantasia e le mani stanche della “gnura” Maria rendevano sempre diverse. La frutta era sparpagliata in mezzo ai piatti: ghirlande di pere legate con lo spago conservate in soffitta per l’occasione, cotogne appassite e cotte nel vino, grappoletti di uva messa a seccare appesa al tetto , moscia e nerastra ma che ancora conservava il sapore e noci e mandorle, qualche volta anche un pugno di nocciole.

Il giorno della festa, alla fine della messa  di mezzogiorno dalla chiesa partiva la processione della Sacra Famiglia.

Un vecchietto, scelto tra i poveri del paese, faceva San Giuseppe. Abbigliato con una lunga tunica, l’aureola di carte argentata e il bastone guarnito di violacciocca. Una bambina su un asinello faceva Maria con in braccio una statuetta del Bambino Gesù. Precedeva il corteo un ragazzino vestito da Angelo con le ali e la spada di latta.  Se le offerte erano state generose partecipava pure un tamburino che annunciava la processione. Seguiva un codazzo di bambini e poveri del paese desiderosi di sfamarsi con quel ben di Dio. Tante vecchiette, lungo il tragitto tra la chiesa e il cortile dove la tavolata aspettava , affacciate sull’uscio di casa salmodiavano preghiere in una lingua incomprensibile.

Da venticinque anni la “gnura” Maria dedicava il mese di marzo a preparare la “tavolata”. “Sin quando avrò fiato per camminare” aveva promesso e ora si accorgeva che il fiato si stava esaurendo. 

Il sacco con le ultime offerte ricevute si era fatto pesante, oppure erano le sue forze che venivano meno? 

“San Giuseppe aiutatemi a mantenere la promessa”, supplicò. 

Le figlie e le nuore volevano aiutarla, ma lei risoluta rifiutava. “Io ho fatto la promessa e devo fare tutto da sola”.

Fece un bel sospiro e si chinò per prendere il sacco quando udì una voce : “Maria, Maria aspetta che ti aiuto”, voltandosi vide un vecchio sopra un asino che le tendeva le mani. Maria senza rendersene conto gli porse il sacco e si avviò verso casa. Giunta nel cortile, come svegliandosi da un sogno, si ritrovò il sacco sulle spalle e leggera, senza stanchezza, entrò in casa per cominciare ancora una volta la “tavolata” di San Giuseppe.

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