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Canicattì. Festa della Madonna del Rosario, racconto storico del prof. Gaetano Augello  

Nella società contadina canicattinese un ruolo di primo piano aveva la festa della Madonna del Rosario che si celebrava ogni anno, con particolare solennità, la terza domenica di ottobre.

Oggetto della venerazione dei fedeli una splendida statua della Madonna, custodita all’interno della chiesa di San Domenico in piazza Dante. Si tratta di una scultura realizzata dall’artista palermitano Nicolò Bagnasco, al quale si debbono anche i quindici pannelli raffiguranti i misteri del Rosario che sono collocati attorno all’altare. Nella stessa chiesa si trovano altre due pregevoli opere del Bagnasco: il Bambino Gesù detto di Capodanno e San Vincenzo Ferreri, un tempo celebrato a Canicattì, a settembre, come patrono dei muratori.

La festa della Madonna del Rosario rappresentava nella vita del mondo rurale il momento conclusivo di un’annata agraria e l’inizio della successiva. Mentre nella precedente festa di San Diego, che si celebrava l’ultima domenica di agosto, si facevano tutti i conteggi e si pagavano i debiti contratti per la conduzione dei terreni e si procedeva alla compravendita di bestiame in una delle fiere più importanti della Sicilia, per la festa di lu Rusariu si procedeva all’acquisto di tessuti, giocattoli, masserizie e minutaglie di ogni genere, utensili agricoli, coltelli, vestiario pesante per l’imminente periodo invernale.

Presenti anche argentieri palermitani che fornivano chiese e conventi di oggetti sacri punzonati con l’aquila, simbolo della loro città.

Per tre giorni le strade attorno alla chiesa di San Domenico – ma anche corso Umberto e viale Regina Margherita – erano invase da baracche fornite di tutto.

La processione del prezioso gruppo ligneo, raffigurante la Madonna che consegna il Rosario a San Domenico, si snodava per le vie della città, nel pomeriggio della domenica, a cura dei confrati della Congregazione della Madonna del Rosario. La confraternita aveva sede nell’attiguo convento dei padri domenicani: il suo gonfalone, di colore celeste, era cosparso di stelle; i confrati indossavano un bianco camice ricoperto da una mantellina nera.

Annota lo storico Giuseppe Lauricella: “Il simulacro veniva posto sopra un “carruezzu”, robusto carro, trainato da una pariglia di buoi dagli zoccoli lucidati e dalle corna piene di nastri colorati e tintinnanti campanelli. Riuscire a fornire i buoi per la processione era un motivo di vanto per tutto l’anno”.

Se non trattenuto da impegni mondani lontano da Canicattì, in prima fila dietro il prezioso gruppo statuario, alla testa della Deputazione, c’era il barone Agostino La Lomia che, per la circostanza, indossava le insegne di abate laico dell’abbazia feudale di Giacchetto e cioè il pastorale, la mitra e la croce di Malta. In Sicilia di abati laici ne esistevano soltanto undici e per questo Agostino teneva moltissimo a questo titolo, al punto che era l’unico inciso all’interno dell’anello che portava sempre con sé ed era indicato anche nel suo biglietto da visita.

La vigilia della festa si concludeva con giuochi e spettacoli di vario genere che allietavano fino a notte i paesani che ingannavano il tempo mangiando castagne, calia, simenza, nuciddi americani e leccornie varie.

Ad una delle più celebri feste della Madonna del Rosario degli anni passati Agostino La Lomia, con lo pseudonimo di Fausto di Renda, dedicò uno spassoso articolo, L’annu ca vulà la fimmina, pubblicato nell’ottobre del 1953 a Roma sulla rivista dei padri domenicani L’eco si San Domenico.

Nel saggio Fausto di Renda narra, con vivace partecipazione, un episodio rimasto celebre che si verificò a fine Ottocento, l’anno in cui a capo della Deputazione preposta ai giuochi era un agiato burgisi, lu zi Rusariu d’Avenia.

Rosario d’Avenia convinse una compagnia parigina in giro per l’Italia a venire a Canicattì “con un pallone aerostatico che invece di navicella aveva un trapezio dal quale una giovane donna si sarebbe esibita in esercizi di ginnastica”. Il banditore ufficiale del paese, Vicio Cipriano Monocolo, al rullo del tamburo annunciò a tutti con voce baritonale l’evento. A Canicattì e dintorni tutti sapevano che, nel tardo pomeriggio del sabato, vigilia della festa, una donna si sarebbe levata al cielo dentro un pallone.

Per l’esibizione fu scelto l’ampio atrio dell’ex convento dei domenicani, anche al fine di imporre a tutti il pagamento di un biglietto di ingresso – due lire a testa – come contributo al pagamento delle spese: il sagrestano, masciu Neli di Grigoli, vigilava dall’alto del campanile mentre le terrazze, i tetti e i balconi di quanti fortunatamente abitavano nella zona erano letteralmente presi d’assalto.

Tutto era pronto per la grande esibizione: venti uomini di fatica ergevano le corde durante l’operazione di gonfiamento del pallone. “L’idrogeno, opportunamente pompato dentro il grande involucro, cominciò a dare forma alla distesa massa di seta, ed il pallone a poco a poco si librò fra il mormorio dei presenti. I venti uomini di fatica reggevano alla perfezione i cavi che trattenevano agevolmente la massa tendente a salire. Mollando a poco a poco le corde, il pallone era pronto per il via. La giovine ginnasta, che indossava una maglia aderente con gonnellini, si avvicinò al trapezio. La ragazza, molto elegante, disinvolta ed esperta nella sua arte, si assicurò che tutto era a posto; indi, segnandosi, diede il via, che consisteva nel mollare la corda da parte dei venti individui”.

L’annu ca vulà la fimmina

Mentre il pallone si sollevava, tra gli sguardi estasiati dei presenti, accadde l’imprevisto che mandò tutto a monte… anzi sul tetto dell’ex convento. Un carrettiere, tale Decu Parrinieddu, aveva inconsapevolmente messo i piedi a destra e a sinistra del cavo e fu sollevato in alto tra il terrore e lo sbigottimento dei presenti. Il pallone, che era stato dosato per il peso della ragazza, fu frenato nella sua corsa dal peso di Decu Parrinieddu che fu spinto, grazie all’abilità della giovane artista, sul tetto dell’ex convento. La ragazza continuò come poté l’esperimento mentre il povero Parrinieddu dovette aspettare per ore i soccorsi.

Quello rimase per sempre, nella memoria di tutti, l’annu ca vulà la fimmina, mentre lo sventurato ed imbranato Parrinieddu, terrorizzato, da quel giorno non riuscì più a passare davanti la chiesa di San Domenico, fino al punto che decise di trasferirsi in America ove finalmente poté vivere, come suole dirsi, felice e contento.

La venerazione della Madonna del Rosario del Bagnasco ha avuto a Canicattì un ruolo assai importante, al di là delle manifestazioni folcloristiche e delle iniziative commerciali proprie della civiltà contadina.

Si pensi che a conclusione dell’Adunanza Diocesana del 1897 – che il vescovo Gaetano Blandini volle si tenesse non nel capoluogo di provincia, Girgenti, ma a Canicattì e cui parteciparono ben cinque vescovi – nel pomeriggio di domenica 3 ottobre, dopo i discorsi conclusivi tenuti nella Chiesa Madre dall’arciprete di Canicattì Luigi La Lomia, e del vescovo di Noto Giovanni Blandini, si snodò, dopo il canto del Te Deum, una processione dalla Matrice alla chiesa di San Domenico.  Lì fu prelevato e condotto per le vie della città il gruppo ligneo della Madonna del Rosario e S. Domenico. Una volta tanto si derogò alle mode spagnoleggianti tanto care ai canicattinesi: niente concerti musicali, niente giuochi d’artificio, nessuno svago; solo la recita del Santo Rosario da parte di una enorme folla salmodiante.

Significativo quel che scrisse sull’avvenimento – in data 10 ottobre 1897 – il periodico anticlericale agrigentino La Fenice: “Canicattì, a dire il vero, non ricorda mai una sì imponentissima processione; scommetto nessuna anima, tranne gli ammalati, rimase in casa in quel giorno festivo. Chiunque si fosse trovato nel corso principale, nel momento della processione, sarebbe rimasto stupefatto alla vista di quell’enorme popolo incosciente seguire le orme della politica di quei santi ministri della chiesa!”.

Di ben altro tenore, ovviamente, il commento del periodico cattolico La Croce di Costantino – diretto dal giovane prete calatino don Luigi Sturzo – che metteva in evidenza i risultati dell’Adunanza: l’impegno di fondare un grande giornale periodico regionale; l’istituzione di una banca cattolica diocesana; la federazione delle dieci casse rurali esistenti in diocesi.

Il futuro fondatore del Partito Popolare Italiano fu ospite, in quei giorni, nel Palazzo Gangitano – ubicato tra le attuali piazza XXIV Maggio e via Trapani – residenza della famiglia di Francesca Gangitano, mamma del barone Francesco Lombardo. Gli altri vescovi furono ospiti di altri palazzi nobiliari: Gaetano Blandini, come sempre quando pernottava a Canicattì, nel Palazzo Sammarco dei La Lomia, nell’attuale piazza IV Novembre.                                                   GAETANO AUGELLO

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