
Bocciati i cinque referendum abrogativi in materia di leggi sul lavoro e sulla cittadinanza. Non è stato infatti raggiunto il quorum, che avrebbe validato l’esito complessivo sul sì o no. L’affluenza in Italia si è fermata al 30,58%. Voto diverso a seconda delle regioni, ma nessuna ha superato il 40%. In Toscana la percentuale più alta, 39,1%, seguita dall’Emilia con il 38,1 e da Piemonte e Liguria, poco sopra il 35. L’affluenza più bassa si registra invece in Trentino-Alto Adige, dove alle urne è andato solo il 22,7%. Un po’ meglio in Sicilia e Calabria, sopra il 23%. In Sicilia la percentuale più alta si è registrata in provincia di Enna, la più bassa in quella di Agrigento con il 19,6%, Caltanissetta 19,84%, Catania 24,02%, Enna 25,48%, Messina 23,26% Palermo 24,91%, Ragusa 23,16%, Siracusa 22,53%, Trapani 20,29%
I cinque quesiti dell’8 e 9 giugno sono referendum abrogativi, la cui validità dipende tutta dal numero di elettori che hanno partecipato, cioè il quorum. A prevederlo è l’articolo 75 della Costituzione, che disciplina lo strumento del referendum e ne chiarisce il funzionamento. Per questo tipo di consultazione quindi, l’aspetto prioritario non è tanto capire quanti hanno votato Sì e quanti No, ma piuttosto quante persone complessivamente sono andate a votare. Questo perché, a prescindere dai risultati e da chi vinca, è fondamentale che si siano recati alle urne la maggioranza più uno degli aventi diritto. Altrimenti, il risultato è nullo e quindi anche se vince il Sì, il referendum non passa.
Cosa prevedeva il referendum:
Primo quesito al Referendum: Jobs act (scheda verde)
Partiamo dai quattro quesiti sul lavoro. Il referendum è stato promosso dalla Cgil e punta a superare alcune delle modifiche introdotte dal Jobs Act, la discussa riforma del lavoro approvata dal governo Renzi nel 2014. La scheda del primo quesito sul lavoro è verde. All’interno troviamo scritto: “Contratto di lavoro a tutele crescenti- disciplina licenziamenti illegittimi: abrogazione” e subito sotto la domanda con la legge che si chiede di eliminare, con il solito sì o no.
Come funziona oggi
Quando parliamo di contratto di lavoro a tutele crescenti ci riferiamo ai contratti previsti dal Jobs act e che si applicano a tutti i lavoratori assunti dopo il 2015. Parliamo sempre di contratti di lavoro a tempo indeterminato come li conosciamo, ma la grande differenza che aveva introdotto il Jobs act riguarda l’aspetto del licenziamento illegittimo. Oggi un lavoratore assunto dopo il 7 marzo 2015 all’interno di un’impresa medio grande, se licenziato illegittimamente, ha diritto soltanto a un indennizzo economico, calcolato sulla base dell’anzianità di servizio, ma non a riottenere il posto di lavoro. Ci sono delle eccezioni come nei casi di licenziamenti discriminatori o nulli, dove il lavoratore può esser reintegrato, ma in linea di massima lo schema è questo. Negli anni la disciplina sui licenziamenti prevista dal jobs act è stata criticata sia dalla Corte costituzionale che dalla Cassazione, che hanno espressamente chiesto di intervenire.
Cosa si chiede
Il quesito chiede di eliminare questa norma e di ritornare così al famoso articolo 18 dello Statuto dei lavoratori del 1970 che prevedeva la reintegrazione nel posto di lavoro. Va detto non sarebbe un ritorno completo al vecchio articolo 18, ma a quello che resta di questa norma. Negli anni, tra il 1970 e prima del Jobs act, diversi governi avevano ridimensionato il diritto a essere reintegrati, lasciandolo soltanto nei casi più gravi di licenziamento illegittimo. Ad ogni modo, se passasse il sì questo diritto – seppur modificato – verrebbe ripristinato.
Secondo quesito al Referendum: licenziamenti piccole imprese (scheda arancione)
Per il secondo quesito la scheda è arancione. Anche in questo caso parliamo di licenziamenti ma all’interno delle piccole imprese, quelle con meno di 15 dipendenti.
Come funziona oggi
Oggi esiste un limite al risarcimento che viene riconosciuto al lavoratore ingiustamente licenziato, che è stato introdotto da una legge del 1966 e mantenuto anche dal Jobs Act. L’importo del risarcimento va da un minimo di 2,5 mensilità a un massimo di sei.
Cosa si chiede
Il quesito chiede di togliere il limite di sei mensilità e di lasciare al giudice la valutazione, caso per caso, di quanto deve essere risarcito il lavoratore ingiustamente licenziato. Se passasse il sì quindi, il giudice potrebbe stabilire anche un’indennità più alta di 6 mesi, proporzionata al danno subito.
Terzo quesito al Referendum: precariato sul lavoro (scheda grigia)
Per il terzo quesito la scheda è grigia. Dentro leggiamo “abrogazione parziale di norme in materia di apposizione di termine al contratto di lavoro subordinato, durata massima e condizioni per proroghe e rinnovi”. Il tema quindi è quello dei contratti a tempo determinato.
Come funziona oggi
Oggi le aziende possono stipulare contratti a tempo determinato per il primo anno senza dover indicare una motivazione specifica, cioè senza spiegare perché ha deciso di assumere con quelle modalità anziché a tempo indeterminato. Questo vale per il primo contratto – che comunque non può durare più di dodici mesi – ma non per i rinnovi. Se si vuole rinnovare un contratto a termine il datore deve esplicitare la causale, cioè una ragione. Naturalmente non può essere un motivo generico ma deve rientrare tra le causali previste dalla legge (ad esempio la necessità di sostituire dei lavoratori assenti o esigenze temporanee come accade in alcuni lavori legati alle produzioni nel mondo dello spettacolo). Questo perché in teoria, la modalità contrattuale principale dovrebbe essere quella dell’indeterminato, che tutela maggiormente il lavoratore per una serie di ragioni. Tra cui il fatto che per poter essere recesso da parte del datore deve esserci una giustificazione (a differenza di quello a termine che invece si estingue automaticamente alla scadenza).
Cosa si chiede
Il quesito chiede di cancellare la norma che consente di non motivare contratti a termine per i primi dodici mesi, per cui, se vincesse il sì, un datore di lavoro avrebbe l’obbligo di motivare fin dall’inizio, perché ha ricorso a un contratto a tempo determinato, e con delle ragioni specifiche.
Quarto quesito al Referendum: Sicurezza sul lavoro (scheda rossa)
Per l’ultimo dei quesiti sul lavoro, la scheda è rossa. Si parla di sicurezza sul lavoro, in particolare di responsabilità negli appalti.
Come funziona oggi
Partiamo da due imprese: la committente, cioè quella che affida l’esecuzione a un’altra, e l’appaltatrice, ovvero quella a cui avviene assegnato il lavoro. Nella catena degli appalti, quando un lavoratore si infortuna sul luogo di lavoro sia il committente che l’appaltatore sono chiamati a rispondere. Questo tipo di responsabilità si chiama responsabilità solidale ed è prevista proprio per proteggere il lavoratore, che così potrà rivolgersi a entrambi. Tuttavia, secondo la legge, ci possono essere dei casi in cui il committente non è chiamato a rispondere, ovvero quando il danno è riconducibile a “rischi specifici” dell’impresa appaltatrice. Una formula un po’ ambigua che spesso ha finito per far sì che a risarcire fosse uno solo e non tutti i soggetti coinvolti.
Cosa si chiede
Il quesito chiede di eliminare questa norma in modo tale che, in caso di infortuni, anche il committente, insieme all’appaltatore, possa essere chiamato a rispondere. Non scatterebbe una ‘colpa automatica’ per il committente, ma l’idea è quella di tutelare maggiormente i lavoratori soprattutto in quei casi – piuttosto frequenti – in cui l’impresa appaltatrice per un motivo o per un altro risulta fallisce o risulta irreperibile.
Quinto quesito al Referendum: cittadinanza italiana (scheda gialla)
Il quinto e ultimo quesito riguarda la cittadinanza. In questo caso la scheda è di colore gialla. Dentro si legge “dimezzare da 10 a 5 anni i tempi di residenza legale in italia dello straniero maggiorenne” per ottenere la cittadinanza italiana.
Come funziona oggi
Oggi chi ha più di 18 anni deve risiedere continuativamente in Italia per almeno dieci anni prima di poter fare domanda. Abbassare questo periodo a 5 anni, aiuterebbe i tantissimi italiani di fatto nel nostro Paese nel difficile percorso per ottenere la cittadinanza.
Cosa si chiede
Il quesito qui sotto chiede di eliminare dalla legge che regola il meccanismo con cui si diventa cittadini italiani solamente la parte che riguarda il tempo di soggiorno, abbassandolo a 5 anni. Tutti gli altri requisiti previsti – come il non avere precedenti penali o la conoscenza dell’italiano – non vengono toccati dalla modifica e continuerebbero a essere richiesti.
“Un dato allarmante che racconta la preoccupante distanza tra cittadini e istituzioni, soprattutto in considerazione del fatto che Schifani risulta essere l’ultimo in termini di gradimento tra i governatori d’Italia. Un ulteriore aspetto che incide certamente sulla mancata partecipazione alle urne da parte dei siciliani”. Lo dice Mario Giambona, vicecapogruppo del Pd all’Ars, sul voto per i referendum.
“Altro che rivolta sociale di Landini. Il bilancio dei referendum, con quorum sotto il 24% in Sicilia, mette in imbarazzo il segretario della Cgil e la tutta la sinistra. È chiara la posizione dei siciliani su temi legati al lavoro, che ribadiscono anche il ‘no’ alla cittadinanza facile. Nel rispetto di chi è andato a votare, se la maggioranza dei cittadini ha fatto scelte differenti, i sindacati impegnati più in politica che nell’ascolto della gente dovrebbero fare i conti con la realtà”. Così Nino Germanà, vicepresidente dei senatori della Lega e commissario in Sicilia.
Sapevamo che raggiungere il quorum sarebbe stata un’operazione difficile specie se si considera l’appello al non voto partito dalle istituzioni, Meloni e La Russa su tutti. I numeri siciliani ancorché bassi, circa novecento mila elettori che si sono recati ieri e oggi alle urne, ci dicono però che se si lavora per compattare questo elettorato, evitando inutili frammentazioni che finirebbero solo per fare un regalo alla destra, ci sono tutte le premesse per mandare a casa Schifani che fu eletto con meno di 900 mila voti. Tra l’altro il consenso di Schifani è pure in picchiata, se è vero come è vero, che risulta essere ultimo e con distacco nella classifica di gradimento dei presidenti di regione. Se continua a fare, o meglio a non fare, come finora sarà sarà ancora più facile dargli il benservito”. Lo afferma il coordinatore siciliano del M5S Nuccio Di Paola, “L’elettorato che è andato alle urne conclude Di Paola – è un elettorato che tiene alla difesa dei propri diritti, cosa sulla quale il M5S non farà mai sconti a nessuno. Non per nulla domenica prossima scenderemo in piazza per difendere il diritto alla salute, costituzionalmente garantito, ma di fatto messo sempre più in pericolo dalle disastrose politiche di chi ci governa”.